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Un precursore del pensiero eurasiatista: Konstantin Leont’ev

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L’atteggiamento di Leontjev è in funzione della sua visione civile e religiosa della vita ed è, come tale visione, assolutamente indipendente. Alla vigilia della guerra russo-turca (1877-78), che fu proclamata dalla Russia per “liberare” i fratelli slavi, egli dichiarò apertamente, mentre era diplomatico russo nei Balcani, che tutto quel movimento nazionale fra gli slavi dei Balcani era “nazionale” solo in apparenza, mentre in realtà si trattava di una “forma particolare del processo di democratizzazione di tutta l’Europa, processo che agiva in Occidente come in Oriente”. (…) Per questa ragione Leontjev si dichiara avversario della cosiddetta “liberazione degli slavi” e dichiara apertamente che “il dominio turco sarà molto più utile non solo agli slavi ma anche alla Chiesa e alle singole civiltà nazionali” (…) Fornito di una sensibilità straordinariamente acuta, Leontjev afferma chiaramente, “una volta per sempre”, che “l’eterno e naturale avversario della Russia in Oriente non è l’Islam, ma l’Inghilterra” (…) Non gli dispiace l’idea di un rafforzamento della Germania, perché parte dal presupposto che tutto, in tutto il mondo, dipenda soltanto dalle relazioni tra Russia e Germania e che la stessa Inghilterra sarebbe impotente di fronte ad un accordo tra queste due potenze. (…) Gli orientamenti fondamentali della sua visione della vita sono stati espostida Leontjev nel saggio Bizantinismo e mondo slavo, che è senza dubbio, per vastità di pensiero e splendore di forma, l’opera sua più importante.
Giovanni Kologrivof, Costantino Leontjev, Morcelliana 1949, pp. 148-153.

Chi si occupi dello sviluppo storico del pensiero eurasiatista non può ignorare Konstantin Leont’ev, il cui capolavoro, Vizantinism i slavjanstvo (trad. it. Bizantinismo e mondo slavo, Edizioni all’insegna del Veltro  1987), può ben rappresentare la fase preliminare di tale indirizzo di pensiero. Infatti quest’opera, in cui viene esposta una concezione morfologistica della storia che ricorda Ibn Khaldun e preannuncia Toynbee, vide la luce nel 1875, quarant’anni prima dello spengleriano Untergang des Abendlandes. Prima che Spengler opponesse la concezione di una molteplicità di cicli di civiltà alla boriosa rappresentazione eurocentrista, già Leont’ev aveva dunque osservato la nascita e il tramonto delle varie forme storico-culturali, fino a convincersi dell’imminente estinzione della civiltà “occidentale” per effetto di un inevitabile processo degenerativo. Prima che Spengler, ripudiano l’eurocentrismo e reintegrando nei loro diritti le culture extraeuropee, facesse piazza pulita di quello che René Guénon avrebbe di lì a poco chiamato “il pregiudizio classico”, Konstantin Leont’ev considerava la civiltà dell’antica Persa in maniera ben diversa da come veniva insegnata nelle scuole russe (e non solo russe) del sec. XIX, all’insegna di una retorica della “libertà” che ai “barbari dell’Oriente” ha riservato solo incomprensione e disprezzo

Ma una differenza rilevante fra Spengler e Leont’ev risiede nella valutazione di una civiltà che per lo studioso russo costituisce un oggetto d’indagine privilegiato: quella bizantina. È stato giustamente notato che “la scienza storica europea ha per secoli considerato Bisanzio null’altro che una in originale e sterile sopravvivenza del mondo greco-latino, asservita per di più (peccato capitale agli occhi di uno storico liberale) ad un ‘retrivo’ ideale religioso e monarchico. Generazioni di studiosi e di lettori occidentali hanno incessantemente tramandato una quantità di pregiudizi su Bisanzio, che, non somigliante né alla civiltà classica né all’Europa moderna, si sarebbe distinta solo per bigottismo, crudeltà e ristrettezza spirituale” (1). Lo stesso Spengler, se da un lato fa rientrare il mondo bizantino nell’”estate” di quella Kultur che egli, con un caratteristico termine del suo vocabolario, chiama “araba”, dall’altro vede nel “bizantinismo” un fenomeno di Zivilisation, cioè di rinsecchimento e di irrigidimento culturale. Leont’ev invece, che riprende la sistemazione tipologica delle civiltà fatta da Danilevskij, aggiunge ai dieci cicli storico-culturali compresi in tale sistemazione un undicesimo ciclo: quello bizantino, per l’appunto, inteso come “particolare ed autonomo tipo culturale avente propri caratteri distintivi e propri princìpi generali” (2). Il bizantinismo, per Leont’ev, non è semplicemente un ciclo storico: è un’idea-forza, un principio universale, l’unico in grado di modellare e organizzare l’elemento “demotico” dell’area geografica sottoposta alla sua giurisdizione, intervenendo su di esso così come la forma agisce sulla materia.

A questo proposito, Nikolaj Berdjaev ha notato che, nella visione di Leont’ev, “la verità e la bellezza del popolo russo non si manifestavano nel genio delle masse, bensì nelle discipline bizantine che organizzano e plasmano questo genio a loro propria immagine” (3). L’elemento popolare, comunque, si presta assai meglio di quello borghese a recepire l’azione formatrice dell’idea bizantina: “Un mugico – dice Berdjaev parlando di Leont’ev – egli era pronto a idealizzarlo, se non altro perché era il contrario di un piccolo borghese (…) Nei Balcani, in Turchia, in Russia, l’aspetto pittoresco e popolare della vita attirava la sua attenzione (…) Vede nella comunità rurale un principio idoneo a prevenire la minaccia del proletariato” (4). Lo stesso Leont’ev confessa: “Il popolo e la nobiltà, i due estremi, mi sono sempre piaciuti più del ceto medio dei professori e degli scrittori che ero costretto a frequentare a Mosca” (5).

Nazionalismo e panslavismo, dunque, non possono riscuotere le sue simpatie, perché si tratta di aspetti di “quel processo di democratizzazione liberale che già da molto tempo lavora per la distruzione dei grandi mondi culturali dell’Occidente. Eguaglianza di persone, eguaglianza di classi, eguaglianza (cioè uniformità) di province e di nazioni: si tratta sempre dello stesso processo” (6). All’idea di nazione, Leont’ev contrappone l’idea di comunità spirituale, sostenendone la superiorità in termini provocatori: “il vescovo ortodosso più crudele, anzi, il più vizioso (a qualunque razza appartenga, anche se è solo un mongolo battezzato) dovrebbe ai nostri occhi avere maggior pregio di venti demagoghi e progressisti slavi” (7).

Il panslavismo, anche quando fa strumentalmente appello alla solidarietà dei cristiani contro il “giogo turco”, secondo lui non è altro che un veicolo della mentalità antitradizionale e sovversiva proveniente dall’Europa moderna. Contro questo assalto disgregatore, Leont’ev indica come soluzione la doppia barriera rappresentata dall’Ortodossia e dall’Islam. “Leont’ev non era uno slavofilo, ma un turcofilo” (8), dice Berdjaev, il quale riferisce con malcelata indignazione che per lui “il giogo dei Turchi impediva ai popoli balcanici di sprofondare definitivamente nell’abisso del progresso democratico europeo. Leont’ev considerava quel giogo come salutare, perché favoriva il mantenimento dell’antica Ortodossia in Oriente” (9). Prosegue Berdjaev con la medesima indignazione: “Fa appello alla violenza dei Tedeschi contro i Cechi così come si augura quella dei Turchi contro gli Slavi dei Balcani: affinché il mondo slavo non si imborghesisca per sempre. Non desiderava la liberazione dei cristiani, ma la loro schiavitù, la loro oppressione” (10). E ancora: “Vede nell’idea di cacciare i Turchi un’idea né russa né slava, ma un’idea democratica e liberale” (11); “credeva che Costantinopoli non potesse essere se non russa o turca; ma, se fosse caduta in mano agli Slavi, sarebbe diventata una centrale rivoluzionaria” (12). In effetti, è lo stesso Leont’ev a scrivere di aver capito, durante la sua permanenza in Turchia in qualità di diplomatico dello Zar, che, “se molti elementi slavi e ortodossi sono ancora vivi in Oriente, è ai Turchi che ne siamo debitori” (13).

Tra le civiltà tradizionali, solo quella islamica e quella ortodossa, secondo Leont’ev, hanno un avvenire. La Russia, in particolare, ha il compito di salvare la vecchia Europa, ormai esausta; ma, per potere svolgere questa funzione, la Russia deve tornare all’idea bizantina e unirsi “con popoli asiatici e di religione non cristiana (…) per il semplice fatto che tra di loro non è ancora irrimediabilmente penetrato lo spirito dell’Europa moderna” (14).

1. Aldo Ferrari, La Terza Roma, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, p. 36.
2. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. I.
3. Nicolas Berdiaeff, Constantin Leontieff, Parigi 1926, p. 244.
4. Ivi, p. 243.
5. Ivi, p. 45.
6. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. II.
7. N. Berdiaeff, op. cit., p. 251.
8. Ivi, pp. 251-252.
9. Ivi, pp. 85-86.
10. Ivi, p. 90.
11. Ivi, p. 250.
12. Ivi, p. 251.
13. Ivi, p. 250.
14. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. V.

Bizantinismo e mondo slavo
Edizioni all’insegna del Veltro
Parma
per ordini , scrivere a:
insegnadelveltro1@tin.it

http://www.insegnadelveltro.it/catalogo/europa/leontev_bizantinismo.htm

Viene qui presentata la prima traduzione in lingua occidentale di un’opera del 1875, scritta da uno dei più singolari esponenti del pensiero “neoromantico” che trovò la sua espressione in Russia negli ultimi decenni del secolo scorso. Nella nota introduttiva di C.M. l’opera viene esaltata come precorritrice delle conclusioni di Spengler del Tramonto dell’Occidente, vetta della storiografia “morfologica”, in cui viene preconizzato l’esaurimento della civiltà europea attraverso un processo di disgregazione delle sue forze vitali. In realtà, per quanto riguarda Leont’ev, la storiografia è l’occasione per affermare il suo ideale estetico del “bizantinismo” come principio universale, unica speranza di salvezza dal “borghesismo” dell’Occidente. (Marco Corona, “L’altra Europa”, 1988)

Gli scritti di Konstantin Leont’ev rappresentano oggi, all’interno della variegata opposizione al regime di Eltsin, una delle fonti d’ispirazione per la progettazione di un articolato manifesto geopolitico. (…) Lo Spengler russo anticipa di un secolo le tesi più radicali degli odierni nazionalisti contro il liberalismo, l’individualismo e l’abbattimento delle identità culturali e spirituali. (Tiberio Graziani, “L’Umanità”, 23-24 febbraio 1997)

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